Pandemia, resilienza, parità di genere e… tanto altro!

 

di Katia Caravello

Questa settimana ho incontrato Elisabetta Camussi, docente di Psicologia sociale presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca, già componente della task force guidata da Vittorio Colao, nominata Ufficiale della Repubblica Italiana dal Presidente Mattarella, attuale componente della Cultural Change Commission del Women Forum del G20.

Foto dei componenti della Task Force Colao
Foto dei componenti della Task Force Colao

Tanti gli argomenti di cui abbiamo parlato, partendo dalla sua esperienza all’interno della task force Colao per arrivare alle tematiche inerenti la parità di genere.

D. Sei stata componente tra aprile e giugno del 2020 della task-force di Vittorio Colao, qual è il tuo bilancio di quest’esperienza? Quali sono i punti di forza e i punti di debolezza di questa esperienza che hai fatto?

R. E’ stata un’esperienza importantissima io credo, non solo a livello individuale ma proprio a livello collettivo, perché credo che fare la scelta in Italia di costituire una Task force in un periodo di pandemia da parte della Presidenza del Consiglio, convocando un insieme di esperti ed esperte per ragionare su quanto stava accadendo, ma su quanto soprattutto si sarebbe dovuto fare dopo trovo sia stata veramente un’idea molto importante. E’ stata, posso dire sinteticamente, una grande impresa per così dire perché tieni conto del fatto che noi stessi componenti convocati in un pomeriggio – non lo dimentico, era il venerdì precedente la Pasqua –  e ci siamo trovati a lavorare nel pieno della pandemia, perché come ricordavi abbiamo cominciato il 10 aprile e consegnato il nostro report con le annesse schede il 15 di giugno, quindi abbiamo lavorato nel pieno della pandemia, con l’unica possibilità di condivisione a distanza, lavorando da remoto, non era certo possibile vedersi, con ritmi molto molto impegnativi, direi totalizzanti,  dentro una condizione anche psicologica che chiedeva contemporaneamente a tutti noi di stare sul presente e sul futuro. E’ stata come dicevo un’esperienza molto importante e della quale a mio parere si sarebbe potuto fare un uso molto più proficuo di quanto purtroppo non si sia fatto. Questo non certo per i contenuti del lavoro che noi abbiamo fatto. Quello che è stato molto interessante ed impegnativo è stato non avere un tempo pregresso nel quale divenire un gruppo e nel quale mettere quindi in comune una visione del mondo, ma dover immediatamente lavorare all’identificazione dei problemi rilevanti nel presente, delineando un’idea di ripresa di questo nostro contesto nazionale e, contemporaneamente, fare questo nella consapevolezza che i nostri saperi erano diversi e che non era né sarebbe stato semplice metterli in Comune e che soprattutto, ad una task force di tipo governativo non si chiedeva una mera diagnosi – quindi con l’identificazione delle problematiche – ma si chiedevano concrete proposte utili per progettare soluzioni. Nel report conclusivo che abbiamo consegnato ci sono 102 schede allegate, sono proprio schede che dicono, problema per problema, quale è il problema ma soprattutto con quali tempi, modalità, finanziamenti, strumenti e soggetti coinvolgibili possono e debbono essere trovate le soluzioni.

Adesso che ti ho detto i punti di forza Forse dovrei dirti anche qualche punto di debolezza. Un punto di debolezza sicuramente molto importante è stato il fatto che dall’inizio lo squilibrio di genere era molto presente, nel senso che eravamo 4 donne e 13 uomini. Per altro io ero l’unica donna per così dire di formazione non hard, nel senso che le altre colleghe che erano con me dall’inizio erano statistiche o economiste e questa dimensione di gender in-balance, per così dire, era penalizzante dal punto di vista della capacità di restituire all’interno del contesto della task force la complessità che nel mondo c’è, complessità che nel mondo c’è e che fortunatamente è stata con forza richiamata da gruppi di donne comuni guidate, diciamo supportate, da un proprio movimento. Sto pensando a Dateci Voce, che ha scritto una lettera al Presidente Conte, e poi le migliaia di donne che l’hanno sottoscritta e le altre associazioni che l’hanno supportata, chiedendo proprio che venisse riequilibrata la presenza femminile all’interno della task force, cosa che è stata fatta a maggio, dopo circa sei settimane dall’inizio dei lavori, quindi con un’esperienza che è stata nei fatti molto produttiva perché le colleghe che sono arrivate sono arrivate con assoluto spirito di collaborazione e consapevoli del fatto che lavoravamo da sei settimane, ma che dovrebbe essere messa con un a priori. Nel senso che non ha nessun senso riequilibrare in corsa, deve essere definito ex ante che una commissione governativa che si deve occupare di cosa sta succedendo, di come rimediare a quanto sta succedendo, per il futuro di una nazione non può che essere composta in prima battuta dalla rappresentatività di quella che è la popolazione, visto che le donne attualmente sono più del 50% della popolazione italiana.

Finisco con un altro punto che a mio parere è stato critico, che non adeguatamente gestito anche dopo la consegna del nostro report.  Io, insieme a Filomena Maggino, ho coordinato un gruppo di lavoro – eravamo divisi in gruppi di lavoro – che si chiamava individui “Famiglie e società”, gruppo di lavoro nel quale peraltro ho lavorato molto bene sia con Linda Laura Sabbadini che con Giampiero Griffo e Fabrizio Starace. Questo gruppo che Colao chiamava cantiere, come tutti i gruppi di lavoro, era un gruppo di lavoro che nelle modalità concrete veniva etichettato come il numero 1 e nelle modalità di presentazione diveniva il gruppo numero 6. Questa non è semplicemente una pedanteria di tipo numerico ma risponde a una questione molto importante. Nonostante avessimo cercato fortemente di tenerle trasversali, in qualche modo rubricate tutte le questioni inerenti le persone, la vita quotidiana, le relazioni le possibilità e le impossibilità relegate appunto integralmente a quel gruppo del quale il pensiero che era un po’ quello che permeava, e che permea tutt’ora il PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza),  è un pensiero del tipo “Sì non è che queste questioni non ci interessino, ma sono questioni che verranno dopo”, in questa idea, un po’ a mio parere anacronistica ma molto ancora diffusa, per la quale le questioni di tipo strettamente economico devono essere gestite prima e in un certo senso a prescindere dalle questioni che riguardano le persone e che le questioni che riguardano le persone non sono irrilevanti però, appunto, ce ne occuperemo dopo. Io credo che questo sia stato un grosso errore storico fatto lì, fatto non tanto nella consegna dei lavori che è andata bene così, ma nel non partire da subito nell’utilizzare quanto fatto è che è stato purtroppo rifatto nel PNRR.

D. Le persone sono state messe un po’ in secondo piano, mentre in questa situazione avrebbero dovuto essere al primo posto. Ne hai già un po’ accennato, ma tu nella task force nello specifico di cosa ti sei occupata?

R. Tutte noi e tutti noi che avevamo competenze di tipo più psicologico, sociologico, sociale e pedagogico, comunque tutti e tutte noi in qualche modo considerabili come più di formazione vicino alle scienze sociali nel loro complesso, all’inizio avevamo fortemente provato a svolgere un ruolo che, oltre a quello di produzione di contenuti tramite l’identificazione di problemi rilevanti, fosse anche un ruolo per così dire di advisors trasversali. In particolare, sto pensando al fatto che io avevo lavorato tanto per porre la questione delle pari opportunità in primis di genere come trasversale a tutti i gruppi di lavoro e quindi alle azioni che venivano svolte, e allo stesso modo Giampiero Griffo aveva molto lavorato perché tutte le questioni attinenti le persone con disabilità fossero, come quelle di genere, considerate mainstream e quindi aventi un impatto per così dire di tipo trasversale. Questo non è stato facilissimo né da agire né da mantenere, avrebbe comunque, al di là delle volontà individuali, richiesto un tempo di elaborazione molto più lungo di quello che noi avevamo a disposizione; Tenete conto che da subito a noi è stata data l’indicazione che avremmo avuto un tempo brevissimo per produrre quello che dovevamo produrre e questo dico in tutta sincerità si è tradotto nel fatto che lavoravamo 7 giorni la settimana praticamente tra le 12 e le 14 ore al giorno, perché con quei tempi era importante riuscire a pensare delle cose buone. Per questo motivo abbiamo anche molto lavorato, nel mio gruppo in particolare, nell’identificare quelle che ci sembravano i temi che avrebbero in qualche modo potuto costituire un importante cambiamento sociale in particolare dal punto di vista dell’attenzione al Welfare. Per cui abbiamo molto lavorato su un’idea e una proposta di Welfare fatto con i cosiddetti presidi di resilienza e il Welfare di prossimità, che superi la divaricazione eterna che continua a esserci tra dimensione sanitaria e dimensione sociale e quindi assumendo il concetto di salute nella sua globalità. Perché il welfare di prossimità per noi era ad esempio era ed è a tutt’oggi, non l’abbiamo certo dimenticato, una proposta che tiene conto delle normali criticità che intersecano il ciclo di vita delle persone tutte e quindi prova a costruire servizi che siano molto prossimi agli individui, cosiddetti a bassa soglia, fruibili 24 ore al giorno e fruibili anche in forma di co-working, di formazione o di intrattenimento o di punto di socializzazione nelle diverse età della vita e che abbiano poi delle equipe multidisciplinari capaci di fare i processi di re-invio. In relazione a tutto questo noi abbiamo immaginato anche un importante lavoro teso a favorire il più possibile la situazione di domiciliarità nelle esperienze di vita di persone fragili e vulnerabili. Tutto questo in relazione ad una visione delle questioni di genere, nella considerazione dell’iniqua distribuzione dei carichi di cura tra uomini e donne, dell’impatto che questa iniqua distribuzione sulla vita delle donne tutte e sulla loro possibilità di partecipazione al mercato del lavoro.

L’ultimo aspetto sul quale in questo gruppo di lavoro abbiamo focalizzato molto la nostra attenzione è stata la dimensione di bambini, giovani, minori, adolescenti con delle proposte che fossero sia contrasto della povertà materiale che di quella educativa, che con l’idea di un piano nazionale di orientamento che supportasse le scelte formative e professionali in ottica appunto di sviluppo delle progettualità individuali e collettive ed anche con un’attenzione al possibile coinvolgimento di un numero crescente di ragazzi e ragazze nel servizio civile quale forma di partecipazione sociale.

 

Una margherita che nasce da un terreno arido

D. Insomma hai fatto un lavoro decisamente ricco ed impegnativo. Cambiando argomento, egli ultimi anni ma soprattutto da quando è iniziata la pandemia si fa un ricorso praticamente quotidiano in qualsiasi contesto, cartoni animati compresi, del termine resilienza. Non pensi che sia un po’ abusato? Ricordiamo che la resilienza è la capacità di reagire con successo a situazioni problematiche come appunto quella della pandemia.

R.  Trovo interessantissima questa tua domanda e ti ringrazio perché è una dimensione sulla quale rifletto e mi innervosisco frequentemente anch’io e anche durante l’esperienza della task-force non è stato semplice. E’ straordinario come si parli costantemente di   resilienza, ma come non si parli mai della resilienza psicologica in quanto tale, cioè la resilienza come un processo adattivo, organizzativo, che si può in qualche modo riordinare.

Va benissimo parlare di resilienza dei territori, di resilienza delle comunità, certamente si fa riferimento a quel capitale di risorse anche concrete e oggettive alle quali un territorio, una comunità può fare riferimento a fronte di una difficoltà, proprio per mettere in atto competenze e capacità, però non c’è resilienza di gruppi, territori, comunità che non abbia anche a che fare con una, mi viene da dire, manutenzione di quella che è la resilienza individuale e collettiva dal punto di vista psicologico e psicosociale.

Quindi su questo direi due cose che mi interessano molto, la prima è che forse dovremmo anche smettere in questa fase storica, dopo 14 mesi, di chiedere alle persone di essere resilienti. Perché continuare a insistere su questa dimensione della resilienza a mio parere può essere anche molto disfunzionale, in quanto stiamo continuamente chiedendo alle persone di divenire costantemente e sempre più capaci di adattarsi, ma per fare questo la resilienza, che peraltro è una dimensione che prevede una dotazione di nascita, non è solo l’esito di un’esperienza, dev’essere in qualche modo supportata, potenziata, accresciuta attraverso delle modalità specifiche. 

Nel momento in cui continuiamo a chiedere alle persone di essere resilienti forse dovremmo dire loro che cosa stiamo facendo per aiutarle ad essere resilienti e peraltro in che misura riconosciamo la fatica di chi le risorse le ha finite. In forme molto diverse, la pandemia ha acuito criticità e disuguaglianze certamente preesistenti, ma vorrei ricordare che la pandemia, oltre ad aver impattato contemporaneamente globalmente su tutte e tutti noi, ci ha trovati in condizioni molto diverse e quindi anche continuare a fare una richiesta di tipo monotematico significa disconoscere la quantità di risorse che alcuni gruppi sociali, alcune persone potevano avere e magari hanno potuto anche preservare o mantenere nel corso di questa esperienza, e la quantità di risorse che altri gruppi sociali, persone, contesti hanno necessariamente visto logorarsi proprio nel corso di questa esperienza.

Quindi è importante sia ridare alla resilienza il valore che merita e soprattutto recuperandone il valore psicologico. Bisogna puntare sulla possibilità di come promuoverla questa resilienza e non semplicemente chiedere alle persone di continuare ad essere tali.

D. Secondo te che cosa si sta facendo per promuovere la resilienza? Sempre che si sita facendo qualcosa.

R. Secondo me si sta facendo pochissimo e tutto questo lo dico perché, ritornando a quanto messo nel piano Colao, lì le iniziative che avevamo indicato erano proprio numerose e avevano a che fare ad esempio col mettere da subito a disposizione, così come sono stati messi a disposizione voucher alimentari, dei cosiddetti voucher psicologici, che potessero essere utilizzati da singoli o nuclei familiari. Avevamo fatto un’ipotesi di quattro colloqui per individui che avessero caratteristiche facilmente identificabili, come l’essere stati all’estero, l’essere stati pazienti covid, l’essere persone che hanno subito lutti durante quest’esperienza, l’essere persone che hanno perso il lavoro o comunque la fonte di sostentamento familiare, l’essere persone che hanno figli magari che hanno avuto particolari criticità oppure donne che hanno subito violenza domestica anche durante la pandemia. Quindi avevamo ipotizzato l’identificazione di una serie di categorie che potevano essere interpretate sia nella caratteristica del singolo, sia nella caratteristica di come questo singolo è parte di una rete di relazioni. Quindi l’intervento di supporto a una persona come intervento in grado di avere ricadute benefiche ad esempio sul nucleo familiare erano stati proposti come modalità per intervenire secondo quella visione – che poi la ricerca psicologica ci ha insegnato e non abbiamo bisogno della pandemia per sapere la fondatezza di questo tipo di approcci –  dopo un trauma collettivo molto importante c’è un tempo, che però è breve, nel quale la possibilità di intervenire, mettendo a disposizione sostegni e risorse, maggiori rispetto a quelle che il servizio pubblico da solo era in grado ed è in grado di dare come risposta, ottenendo, in una sorta di riorientamento, il passaggio  da uno Stato tendenzialmente di malessere psicologico o comunque depressivo, che sarebbe un po’ l’evoluzione più naturale, una possibilità di promozione della resilienza.

Tutto questo a mio parere non è stato fatto, piccoli cenni se ne vedono adesso, però intanto molto tempo è passato e su questo purtroppo anche il PNRR non ha saputo stanziare con la decisione necessaria risorse e, soprattutto, non ha saputo costruire una narrazione chiara dei bisogni delle persone come bisogni che chiaramente non possono essere risolti unicamente da infrastrutture, come possono essere la dotazione della fibra o il miglioramento di tutta una serie di condizioni derivanti dalla transizione ecologica, ma che hanno profondamente bisogno di quelle che si chiamano infrastrutture sociali e sarebbe quindi molto importante che queste infrastrutture sociali venissero messe a disposizione, costruite, realizzate, supportate, alimentate, come dire, abitate da personale qualificato e quindi di qualità e contemporaneamente usare la tecnologia per costruire ad esempio sia  stanze virtuali sia processi virtuali nei quali le persone potessero con facilità trovare supporto per la condizione che stanno vivendo. Molte persone quelle che in questa fase storica nonostante tutto sono state meglio hanno desiderio di capire come poter meglio mantenere almeno le proprie risorse interiori, laddove la dimensione esterna è molto molto, come dire, difficile anche semplicemente prevedere.

D. Grazie per questa esauriente, risposta che condivido in ogni sua parte, e cosa pensi che nella narrazione della pandemia sia stato sbagliato?

R. Faccio un esempio molto significativo che mi ha colpita tantissimo. Direi circa un mese fa lavoravo con colleghi anglosassoni per un altro lavoro di ricerca e a un certo punto ci siamo trovati a parlare della pandemia e la cosa che mi ha molto colpito di questa loro narrazione è stata l’attenzione che, pur con tutti gli errori e le criticità che anche il governo britannico ha fatto, ha messo il governo britannico nell’incaricare agenzie di comunicazione di preparare attività di comunicazione istituzionale in grado di far fronte e quindi di comunicare con la popolazione rispetto a scenari molto molto diversi, dico solo che gli scenari che erano stati prospettati in termini di bozze di potenziale comunicazione erano cento. Allora mi viene da dire questa è stata la scelta anglosassone, noi stiamo in un’altra condizione ma quello che mi sembra però molto significativo è stato non aver adeguatamente investito appunto sull’importanza della comunicazione istituzionale. Io avendo fatto parte della Task Force ricordo molto bene quanto già dal mio primissimo intervento sostenni la necessità sia di prestare attenzione alle ricadute che le decisioni prese avrebbero avuto sulle vite individuali e collettive sia sulla necessità di costruire una narrazione di quanto stava accadendo che riconoscesse alle persone la dimensione della fatica e della sofferenza, della paura e dell’angoscia, o sia di tutte queste caratteristiche molto psico che non è che siccome non le nominiamo poi le persone non le sperimentano.

Invece la scelta è stata quella di andare verso una narrazione che era quella della “andrà tutto bene” che è stata una narrazione a mio parere molto disfunzionale perché, se per qualche momento, quello iniziale, ha dato una prospettiva diciamo di ottimismo, in quel momento anche forse potenzialmente realistico, si è presto tramutata in una visione di ottimismo irrealistico, che in quanto tale non sapeva tener conto, né spiegare, né narrare, né dare forma, inserire in un quadro più complessivo il fatto che invece praticamente nulla fosse andato davvero bene e che ci fossero tante e diverse questioni sulle quali porre attenzione, alle quali mettere mano. Credo che questo atteggiamento risenta proprio di una fatica nella nostra nazione ad avere in mente l’importanza della psicologia non solo, quelle rare volte che la si ha in mente, non solo come quelle competenze che intervengono per curare nelle fasi acute, ma come quell’insieme di competenze che sono assolutamente necessarie, strategiche, sia per prevenire sia per permeare la vita quotidiana e paradossalmente questo durante la pandemia e quindi anche adesso l’hanno compreso molto più le persone comuni di quanto non l’abbiano compreso ho voluto rendere noto i soggetti in posizione istituzionale. Questo lo dico perché anche nella mia esperienza di task force, essendo io una persona che lavora in un Ateneo pubblico e quindi avendo un indirizzo email pubblico e rintracciabile, ho ricevuto centinaia e centinaia e centinaia di email da comuni cittadini e cittadine nelle diverse fasi dell’esperienza, non solamente durante la  task force, che mi ponevano questioni inerenti il loro benessere o malessere psicologico quotidiano legato proprio all’esperienza della quotidianità, sottolineandomi come per loro fosse assolutamente necessario che io comprendessi quello che stavamo vivendo, anzi loro davano per scontato che io lo potessi comprendere proprio perché sono una psicologa. Allora io credo che questa necessità di intrecciare la cultura psicologica con una cultura appunto del benessere individuale e sociale e collettivo sia uno degli elementi su cui bisogna costruire la progettualità da adesso verso il futuro, eliminando invece una visione appunto che ancora rimanda la psicologia e i bisogni delle persone al tema del “dopo, dopo”, alla pacca sulla spalla, alla versione del “riprendiamoci il gusto del futuro”, senza che su tutto questo vengano svolte azioni specifiche per cui questo “gusto del futuro” lo possiamo davvero ritrovare.

D.  Bene in questa seconda parte dell’intervista invece volevo più concentrarmi su un’altra parte del tuo lavoro. So che tu ti occupi da tanto di pari opportunità e volevo chiederti che cosa secondo te si deve fare per riuscire veramente a raggiungere la parità di genere sostanzialmente e se negli interventi che sono stati previsti anche dalla task force e dal PNRR si sta facendo veramente qualcosa di concreto.

R.  Katia devo risponderti che molto di più e molto meglio avrei sperato e sintetizzo che cosa intendo.

Quando abbiamo consegnato alla Presidenza del Consiglio il piano Colao, con anche grande impegno e non bassa conflittualità all’interno del gruppo infine poi risolta, noi eravamo riusciti a mettere tre assi per noi ugualmente valevoli sui quali costruire l’intero piano, appunto, di partenza per così dire.

I tre assi erano: la digitalizzazione, l’economia Green e la parità di genere. Con la parità di genere Noi intendevamo non semplicemente – lo preciso perché talvolta può sfuggire – che ci si dovesse occupare delle donne, ma che attraverso una dimensione che finalmente promuovesse la parità di genere potessero, nella complessità delle situazioni istituzionali, decisionali e lavorative, entrare tutte quelle articolazioni della vita delle persone che spesso, con una visione potremmo dire un po’ monolitica o monotematica, rischiano di non essere comprese. Noi lì ci siamo riuscite ed è stato molto prezioso e di questo sono grata a tutti i colleghi e le colleghe della task force, che infine hanno concordato sull’importanza di fare questo. Purtroppo, non è successo altrettanto laddove l’Unione Europea ha dato le indicazioni su in che proporzione allocare le risorse del PNRR. L’Unione Europea, in un mix tra distrazione e superficialità, ha molto bene dichiarato quante risorse proporzionalmente dovessero essere allocate sulla digitalizzazione e sull’economia Green, ma non ha precisato nulla per quanto riguarda la parità di genere. Questo è stato un grosso errore pensando al fatto che l’Italia è la nazione che sul recovery fund prenderà la quantità maggiore di denaro e che è sempre l’ultima o penultima su tutti i gender Global Index per quanto riguarda la posizione delle donne. Pensiamo a una cosa molto semplice: noi siamo una Nazione nella quale prima della pandemia con enorme sforzo eravamo riusciti a superare di poco il 50% per quanto riguarda l’occupazione delle donne nel mercato del lavoro, intendo dire che in Italia prima della pandemia poco più del 50% delle donne in età da lavoro lavoravano, adesso siamo ritornate al 48% per l’impatto che sappiamo la pandemia avuto in particolare sul lavoro delle donne; preciso che in Europa il dato medio è il 68% delle donne in età da lavoro a livello europeo lavora ( in alcuni casi si arriva anche al 70%),  a noi era stato chiesto di raggiungere il 60, siamo al 48. Per quanto riguarda la popolazione maschile lavorano in Italia, e praticamente in Europa, l’85% degli uomini.

Dato che siamo in una situazione di questo tipo, sarebbe stato assolutamente necessario che l’Europa desse un’indicazione molto chiara su questo, cosa che non è stata fatta.

D. Invece cos’è successo? Che cosa andrebbe assolutamente fatto?

R. Beh è successo che la parità di genere non è entrata come una delle missioni del PNRR, ma è stata indicata come una sorta di priorità trasversale, tra l’altro facendola rientrare tra le azioni di inclusione sociale, che a me ogni volta disturba moltissimo perché l’inclusione sociale è una cosa, la parità di genere è un’altra cosa. E’ un’altra se non altro perché, da un punto di vista scientifico, l’inclusione sociale riguarda l’inclusione di gruppi a vario titolo minoritari dentro il contesto sociale – non per questo meno interessanti, ma che rappresentano minoranze – mentre le donne rappresentano la maggioranza della popolazione. Quindi se c’è un termine che per le donne non bisogna mai usare è inclusione sociale. Perché diciamo sarebbe un paradosso matematico quello nel quale la metà numericamente inferiore della popolazione includerebbe la metà superiore, quindi

è una cosa alla quale andrebbe prestata molta attenzione.

Invece le azioni a favore della parità di genere sono state un po’ messe lì tra le azioni di inclusione sociale, un po’ variamente distribuite in tutto il PNRR purtroppo in una versione, appunto, molto superficiale, perché intanto non si è data l’adeguata attenzione all’investimento sulla costruzione di infrastrutture sociali, sto pensando a tutte quelle forme di servizio che vanno dagli asili nido fino ai presidi di resilienza e Welfare di prossimità, alla domiciliarità, a tutti quei servizi che finalmente libererebbero il tempo delle donne dalla gravosità esclusiva del carico di cura e anche non sono state messe azioni, o quanto meno non con sufficiente chiarezza, che promuovano ad esempio l’allineamento delle competenze o che non facciano solo questa narrazione relativa alla necessità che le donne giovani scelgano percorsi STEM, ma soprattutto in tutto questo non si è scritto nessun Piano Nazionale per la promozione della parità di genere che ad esempio potrebbe passare attraverso la proposta di un piano nazionale di contrasto agli stereotipi di genere che parta dalla scuola infanzia, arrivi all’università e si rivolga poi anche alla cittadinanza tutta attraverso laboratori e quindi investa nei soggetti adulti, investa i mezzi di comunicazione con un Piano Nazionale che proprio renda evidente l’automatismo inconsapevole degli stereotipi di genere e l’insieme di pregiudizi e discriminazioni che da questo derivano. E’ importante sviluppare una consapevolezza: non eliminare gli stereotipi e pregiudizi, perché come sappiamo eliminarli non è cosa che funzioni per il nostro sistema cognitivo, mentre acquisire la consapevolezza sì. Ciò offrirebbe alle donne agli uomini un’esperienza di partecipazione alla realtà molto migliore. Faccio solo l’esempio di due dimensioni sulle quali, per come abbiamo costruito il piano, sarebbe assolutamente necessario intervenire come vi dicevo a partire dalla scuola dell’infanzia, quindi sia bambini che con bambine, lavorare sull’educazione finanziaria. La capacità di sviluppare un’idea progettuale di sé nella quale io sia in grado di mantenermi anche dal punto di vista economico e contemporaneamente affiancare a questa un’educazione alla cura, anche questa rivolta ai bambini e alle bambine, come capacità in primis di prendersi cura autonomamente di se, poi dell’altro e contemporaneamente insieme a se all’altro del mondo. La cura della cosa pubblica, della polis, è anch’essa una forma importante di cura. Questo svilupperebbe delle capacità diciamo di sviluppo autonomo, sia nel maschile che nel femminile, capacità uniche dalle quali poi potrebbe derivare la costruzione di relazioni, sia nella spazio privato sia nello spazio pubblico, che siano costruite appunto sul riconoscimento e sul rispetto e non sulla competizione o la prevaricazione.

Profilo di 5 donne imprenditrici colorate di rosa

D. C’è ancora tanta strada, tanto lavoro da fare. Che cosa pensi delle “quote rosa”, sia in politica che nella composizione dei CDA?

R. Guarda Katia intanto credo che è un passaggio per tutte e tutti noi sia non chiamarle più “quote rosa”, ma chiamarle “quote di genere”. Quote di genere perché, se si parla di “quote rosa”, si dovrebbe parlare anche di “quote azzurre”, delle millenarie quote azzurre che dall’inizio dell’organizzazione per così dire dello spazio pubblico hanno fatto sì che quindi gli uomini svolgessero in maniera inconsapevole questa cooptazione tra simili che li ha portati e talvolta ancora li porta a ritenersi come dire gli unici più adatti a ricoprire determinati ruoli. Più complessivamente penso che l’esperienza dell’applicazione – la legge Golfo-Mosca ce l’ha mostrato molto bene – dell’obbligo della partecipazione in presenza di almeno il 30% di donne nei CDA ha fatto sì che si è finalmente riusciti ad avere una presenza di genere che in media supera il 30% per cui sono circa il 36% le donne presenti nei CDA delle società quotate e partecipate. Questo ha reso evidente un’efficacia è un miglioramento della capacità delle diverse organizzazioni di leggere la realtà circostante e quindi su questo intervenire adeguatamente.

Le quote di genere a mio parere, dunque, sono una sorta di meccanismo a tempo ma necessario perché laddove non previsto per così dire per legge, come noi sappiamo molto bene, tutti gli studi previsionali ce lo dicono, i tempi di riequilibrio della parità di genere sono tempi che si aggirano nell’ordine dei 200- 250 anni. Allora è chiaro che se ci vogliono 250 anni perché accada qualcosa che nella realtà non sembrerebbe presentare ostacoli oggettivi – ce lo dice la Costituzione che siamo uguali, ce lo dicono le competenze che sono ugualmente diffuse tra uomini e donne –  ma proprio laddove ci siano barriere invisibili occorre assolutamente intervenire con dei meccanismi che agiscono proprio in direzione dell’equità, la versione originale delle pari opportunità, non dell’uguaglianza, quindi verso una giustizia sociale che vada intervenire con correttivi laddove tutto il riequilibrio naturalmente non avviene.

Almeno questo, anche se per ora in maniera non sufficientemente dettagliata, nel PNRR è stato indicato, laddove è stanziata una quota che avrà la forma di quota premiale per quelle organizzazioni che volontariamente effettueranno la certificazione della parità di genere rispetto al proprio contesto professionale e mostreranno di adoperarsi esattamente con misure che vadano a promuoverla.

D. Secondo te in questo processo culturale il linguaggio che ruolo ha? Intendo dire, secondo te, definire una donna a capo di un ministero Ministra anziché Ministro ha un peso o è una sottigliezza linguistica?

R.  Ma guarda ci sono ormai molte linguiste, e in realtà la stessa Accademia della Crusca, che è, come dire, pensata come istituzione molto conservatrice, in realtà hanno spiegato molto bene sia che il linguaggio è uno strumento vivo e in continua evoluzione sia che il linguaggio, e questo la psicologia sociale lo spiega molto bene, non è semplicemente ciò attraverso cui noi esprimiamo il pensiero ma è ciò che dà forma al nostro pensiero; in più il linguaggio continua a essere nominalista –ossia nelle parole ci sono le cose e se le parole non ci sono le cose non ci sono, quindi molto semplicemente, fatta salva la libertà di una singola donna di non volersi chiamare ministra o di non volersi chiamare rettrice, deve essere altrettanto fatta salva la consapevolezza per lei e per tutti e per tutte del fatto che nella misura in cui lei non si nomina come tale nel mondo non esiste o meglio esiste lei che sta come persona ricoprendo quel ruolo ma non esiste quello spazio che fa appunto del nostro pensiero un modo di costruire la realtà. Quindi in questo senso il non utilizzo di un linguaggio generalizzato che continua invece a vedere prevalere, non tanto un presunto linguaggio neutro universale, ma un linguaggio che invece è centralizzato al maschile, che riduce di molto le possibilità di rappresentazione prima ancora che quelle di partecipazione nella realtà. Se volete anche si trascina un’idea molto spesso inconsapevole, ma molto vetusta, che è quella che i gruppi svantaggiati all’interno del contesto sociale al di là di quello che ci piacerebbe credere non sono esattamente i gruppi che si pongono in posizione militante ma tendenzialmente sono i gruppi che più facilmente rafforzano il permanere di disuguaglianze proprio perché contrastarle potrebbe essere troppo doloroso. Quindi non è difficile comprendere perché una donna che svolge un ruolo pubblico e che avrebbe la possibilità di utilizzare la propria definizione al femminile preferisca scegliere quella al maschile, perché in qualche modo più o meno inconsapevolmente attenua la forza dirompente che la sua presenza lì dentro ha.

D. Sono perfettamente d’accordo con te. C’è spesso questo pregiudizio ancora molto forte che una donna debba decidere necessariamente se dedicarsi alla famiglia o alla carriera nel senso che c’è il pensiero che una donna che ha un certo ruolo, una certa professione un certo incarico non possa allo stesso tempo essere una madre ed occuparsi della famiglia. Io so che tu sei entrambe queste cose nel senso sei una docente universitaria abbiamo sentito quante cose fai in campo professionale ma sei anche una mamma, mi racconti una giornata tipo?

R. Diciamo che se le guardo le giornate tipo di questo ultimo anno, prendono un aspetto da capelli dritti ancora superiore a quello che già non prendevano prima. Sì, io sono una mamma di un figlio e di una figlia e questa per me è un’esperienza importantissima e vitale rispetto alla quale non credo ci sia e ci debba essere separazione tra quello che io sono nel mio essere donna in contesto professionale e nel mio essere donna che è madre. Sicuramente non mi ritengo un modello, da che punto di vista? dal punto di vista che a tutt’oggi cercare di fare entrambe le cose come tu dici è molto molto faticoso perché il contesto sociale non è supportivo da questo punto di vista. La condivisione dei carichi di cura, certo si può costruire all’interno della propria relazione di coppia, ma è un esito e non è una priori e soprattutto l’organizzazione del lavoro, della città, dei tempi di vita, la cosiddetta conciliazione dei tempi di vita, non è ancora pensata perché davvero le donne e gli uomini possano avere la stessa libertà di essere parte dello spazio pubblico.

Sto pensando molto semplicemente al fatto che in post-pandemia una delle cose che più mi aveva colpito tra le dichiarazioni dei paesi nord europei che come sapete per livello culturale, disponibilità di risorse economiche, ma anche certamente inferiore numerosità di popolazione e capacità diciamo di progettualità in ambito sociale sono molto più avanzati di quanto non sia la nostra Nazione, l’aspetto che mi aveva colpito tantissimo appunto era stata  la scelta molto sostenuta dalla premier finlandese donna la quale aveva detto che la pandemia aveva permesso a tutti a tutte di rendersi conto che c’era un tempo di vita che il lavoro sacrificava e che invece era un tempo assolutamente bello e nutriente da passare con i propri familiari o comunque con  le persone care e fece questa proposta a mio parere straordinaria di un ripensamento del mondo del lavoro in cui, lei ha detto, vorrei che  continuassimo tutti e tutte ad essere pagati per lavorare 8 ore ma ne lavorassimo 6.

Allora, questa scelta, al di là del fatto che il contesto sociale e, gli investimenti e le risorse sono diverse dalle nostre, è però una delle direzioni nelle quali è assolutamente strategico andare. Costruzione di servizi e infrastrutture sociali, dove nel concetto di infrastrutture sociali ci deve essere anche complessivamente intrecciato un ripensamento del tempo e del mondo del lavoro che permetta finalmente di avere una conciliazione che non sia solo quella al femminile, ma che sia invece un passaggio di condivisione anche tra i generi.  

Finisco dicendo che essere per me una mamma, che fa questo lavoro,  di due figli che fanno rispettivamente il liceo e le medie significa anche aver lavorato su me stessa la versione di che cosa io posso mettere in comune con loro, Questo fin da quando erano molto piccoli e non necessariamente è solo e soltanto essere la mamma che fa le torte che fa i giochi che fa cose super creative e divertenti, forse mi sarebbe anche piaciuto essere nella vita una persona così, io non sono così quello che ho fatto tutte le volte in cui ho potuto me li sono portati in tutte le situazioni di città, convegni, realtà nelle quali sono stata a lavorare, nella misura del possibile, ovviamente compatibilmente con la loro vita e certo non costringendoli a partecipare ai convegni, però stare nel mondo con una mamma che lavora significa anche beneficiare del fatto che quella mamma entra nel mondo e che quindi ti racconta e ti rende partecipe di una serie di cose. Poi magari facciamo anche la torta insieme – non ne so fare tante però qualcuna si – ma significa anche che magari parliamo insieme di quello che abbiamo visto sentito e soprattutto guardiamo delle cose del mondo che sono fuori dallo spazio della casa.

Io credo che questo le donne dovrebbero legittimarselo molto di più a farlo.

D. Sarà banale ma bisogna dare peso di più alla qualità del tempo che si passa insieme agli altri, ai figli in questo caso, ma in generale agli altri, rispetto alla sola quantità. Si può essere presenti nella vita delle persone anche se materialmente si passa poco tempo con loro.

R. Sì soprattutto Secondo me Katia con un pensiero che si deve articolare proporzionalmente anche alla crescita dei figli, perché è vero che i bisogni dei figli e delle figlie molto piccoli sono bisogno di tanta presenza temporale, che anche questa è articolata su più persone perché altrimenti è veramente faticosissima, dall’altra parte c’è un modo di relazione anche con i figli e le figlie più adulte che si può costruire insieme e non è solo dato da un’eterna disponibilità anche perché tanto poi, sto pensando agli adolescenti in particolare, per quanto disponibilità tu dia, il  momento in cui loro vogliono parlare e comunque è sempre quello in cui tu dovresti fare altro, quindi, su questo bisogna costruire insieme delle modalità.

D. Elisabetta io ti ringrazio tantissimo per questa interessantissima chiacchierata, abbiamo parlato di tante cose, tanti temi importanti e quindi veramente grazie.

R. Io ringrazio te Katia Caravello e auguro buon lavoro e buona prosecuzione per questo bellissimo progetto che state costruendo.

Grazie a tutte e a tutti anche per avermi ascoltata

1 commento su “Pandemia, resilienza, parità di genere e… tanto altro!”

  1. molto interessante questo articolo: sicuramente, molto interessante e da approfondire la resiglienza psicologica, come approfondire questo argomento e perchè? Ci sono altri aspetti interessanti ma, il principale mi pare essere la resiglienza psicologica.

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