Donne, giornalismo e linguaggio d’odio.

Di Katia Caravello

La settimana scorsa vi abbiamo proposto la recensione del libro “#STAIZITTA GIORNALISTA! dall’hate speech allo zoombombing quando le parole imbavagliano”,che potete leggere qui,  questa settimana entriamo più nel merito degli argomenti trattati nel volume grazie ad una chiaccherata con Silvia Garambois, autrice del libro insieme a Paola Rizzi.

D. Nel febbraio scorso è uscito il libro “#STAIZITTA GIORNALISTA! dall’hate speech allo zoombombing quando le parole imbavagliano”, che hai scritto insieme alla collega Paola Rizzi. Perché questo libro?

R.  c’è una storia dietro. Sia io che Paola facciamo parte di questa associazione di giornalista che si chiama GiULia  che non è solo un bel nome di donna ma è l’acronimo di GIornaliste Unite LIbere Autonome. E’ un’associazione nata ormai esattamente 10 anni fa da un gruppo di giornaliste che avevano dei ruoli di rilievo nei loro giornali, caporedattrici, caposervizio… erano insomma le poche che nei giornali avevano un ruolo. Ci siamo ritrovate perché i nostri giornali non ci piacevano; non ci piacevano perché dal nostro punto di vista non raccontavano, e devo dire non raccontano ancora, la realtà nella sua complessità, in particolare per quello che riguarda le donne ma anche per quello che riguarda i giovani, ci sono interi settori della società che vengono praticamente esclusi o trattati in maniera estremamente superficiale.

In questi 10 anni noi ci siamo quindi occupate in particolare dei contenuti dei nostri giornali partendo dal linguaggio, preoccupandoci della narrazione che veniva fatta di alcuni temi come quello della violenza contro le donne oppure dello sport. Ma ormai da un bel po’ di tempo ci siamo accorte anche che spesso e volentieri dovevamo poi dare solidarietà a delle colleghe ovvero, mentre noi criticavamo il prodotto giornalistico (televisione, web, carta stampata), c’era chi criticava noi ma non ci criticava, ci prendeva a parolacce. Sto utilizzando questo termine “parolacce”  perché è la prima cosa, sono quelle che si insegna ai bambini a non dire, ma in realtà il passaggio dalla parolaccia all’aggressione verbale molto violenta, la parola utilizzata come strumento di ferocia e di odio, è stato un passo molto breve.

La solidarietà alle colleghe era un atto dovuto perché quando il livello di attacco verbale, soprattutto sui social, è molto forte, chi sta lavorando non riesce più a lavorare. Ci sono colleghe che fanno oggi effettivamente lavori diciamo così di frontiera si stanno occupando di migranti, sono sulle navi delle organizzazioni non governative, vedono la gente morire o essere salvata per un pelo dalle acque, ci sono colleghe che si occupano di criminalità e di Mafia come altre che si occupano di sport, travolte da questo odio Social.

Di fronte a questa realtà noi abbiamo deciso di fare il nostro mestiere, quindi non più soltanto occuparci di come scriviamo noi, ma andare a indagare che cosa stava succedendo intorno a noi sui social.

Con Paola Rizzi abbiamo quindi fatto questa inchiesta – perché poi di questo si tratta, di una inchiesta giornalistica – per capirne un po’ di più di questo odio che arriva dal mondo dei social Twitter come da Facebook.

Slide con i numeri dei tweet negativi su giornalisti e giornaliste rilevato dagli algoritmi
Slide con i numeri dei tweet negativi su giornalisti e giornaliste rilevato dagli algoritmi

 

Siamo rimaste abbastanza sorprese perché noi avevamo la necessità di avere tra le mani uno strumento per continuare a fare quello che facciamo (corsi di formazione con le colleghe e i colleghi, informare dei punti a cui eravamo arrivate, a raccontare che cosa succede nel mondo e in Europa sul linguaggio d’odio, raccontare le testimonianze che avevamo raccolto tra le colleghe) e, invece, ci siamo ritrovate che è diventato uno strumento che ha interessato un altro pezzo di mondo. Il 31 marzo siamo state udite dalla commissione antimafia, interessata dalla nostra inchiesta. Nel libro noi raccontiamo anche uno dei passaggi di come la mafia ora utilizzi internet e i social allo stesso modo in cui una volta lasciava le teste di capretto davanti alle case o, in maniera più lieve, tagliava le gomme delle auto dei cronisti; ora invece a viso scoperto in pratica attacca via social in particolare le giornaliste Il mestiere di informare è ancora oggi, o oggi più che in altri tempi, ritenuto molto scomodo; è ritenuto molto scomodo a partire dalla politica e dalle aule di giustizia. Noi, giornalisti e giornaliste, veniamo querelati anche se non è evidente la ragione per cui veniamo denunciati per diffamazione. Che cosa succede quando c’è una querela per diffamazione? Non puoi più scrivere perché si mettono in moto altri meccanismi. Questo succede in particolare con la politica perché i politici non amano sentir raccontare di loro, ma se, per esempio, tu fai una inchiesta su un’area dove… mi vengono in mente così tanti esempi da non riuscire a trovarne uno… dal problema dell’immondizia o il problema delle tante aree di criminalità del nostro Paese… se tu vai a indagare con l’informazione, beh stai dando noia ma non stai dando fastidio soltanto a chi non ha potere, stai dando noia a chi ha potere. Quindi si scatena il linguaggio d’odio, soprattutto contro le donne che fanno questo lavoro. Il racconto per esempio della criminalità fatta da un uomo può portare a delle minacce e delle ritorsioni anche gravissime – ci sono colleghi che sono morti per aver raccontato cose che non si voleva fossero raccontate – ma le donne in particolare vengono viste come quelle che non ci devono mettere il naso… è vissuto come un di più… donne che stanno facendo un lavoro che deve essere degli uomini. Cosa ci fa una donna in mezzo al mare a raccontare di migranti che vengono salvati? Cosa ci fa una donna a raccontare che cosa succede in un campo di calcio? Quindi si sfoga un odio assai maggiore di quello che si sfoga contro i nostri colleghi uomini.

D. quindi pensi che dietro a Questa aggressività ci sia il pregiudizio che il giornalismo sia una professione ad appannaggio degli uomini?

R.  è un pregiudizio fortissimo. Oltre ad essere un pregiudizio, è proprio una cultura che ci stiamo trascinando. L’attenzione parlamentare era dovuta certo al fatto che ci occupavamo di mafia, ma a tutto il pacchetto, diciamo così, al tema dell’attacco che c’è nei confronti delle donne. Della  commissione facevano parte ovviamente anche parlamentari di altre commissioni, per esempio la commissione cultura. E’ proprio da loro che sono arrivate le domande su che cosa si può fare sul terreno culturale. Perché il primo terreno è quello, il piano culturale. Perché questo attacco d’odio che è maschilista-patriarcale possiamo trovare molti aggettivazioni non è fatto solo dall’uomo. Se c’è maschilismo è un maschilismo anche di molte donne Per questo dico che è proprio una questione che affonda nella nostra cultura. Affonda nella cultura perché donne e uomini con latte di mamma abbiamo bevuto una realtà sociale molto retrograda, basta pensare che fino al 1981, 5 agosto del 1981, in questo Paese c’era il codice Rocco. Il codice Rocco era quell’insieme di leggi per cui una donna stuprata se veniva sposata dallo stupratore beh non c’era più problema perché l’onore della famiglia era salvo, Quindi, se la ragazza non voleva passare la vita col suo stupratore, fatti suoi, l’importante è che l’onore della famiglia fosse salvo. Ancora, il codice Rocco voleva che se un uomo ammazza la moglie perché era geloso avrebbe avuto degli sconti di pena molto forti sempre per una questione di onore, stava difendendo il proprio onore. Ora il 1981 è ieri, sono passati 40 anni. Io ero già una donna, Quella era la realtà in cui siamo cresciuti e quindi non è poi così strano capire perché sia donne che uomini possono avere oggi un atteggiamento simile in tema di linguaggio d’odio.

Con questo libro, che è innanzitutto un’inchiesta giornalistica, siamo arrivate a dare uno strumento su cui si può lavorare per ripartire da qui e raccontare che cosa sta succedendo su questo mezzo nuovo, perché ancora bambino, che è internet… che sono i social.

Il primo grande interesse lo abbiamo visto per esempio dalle università: siamo chiamate da tanti atenei a raccontare questa inchiesta, a raccontare i numeri, a raccontare il fatto che noi abbiamo lavorato insieme a dei ricercatori universitari, con l’università Aldo Moro di Bari, con la Statale e la Cattolica di Milano e con La Sapienza di Roma. Insieme a Vox osservatorio sui diritti l’anno scorso abbiamo partecipato alla realizzazione della mappa dell’intolleranza. La mappa dell’intolleranza, Che per l’appunto Misura la febbre dell’intolleranza e dell’odio, in particolare su Twitter, in questi anni ha rilevato come siano le donne quelle che attirano maggiormente l’odio Social. A noi interessava avere un approfondimento su quello che era il mestiere d’inchiesta delle giornaliste; Abbiamo visto che i post dei giornalisti, Uomini e Donne, vengono bersagliati da insulti ma, mentre per le giornaliste l’attacco è direttamente alle giornaliste, per quello che riguarda i post degli uomini, dei giornalisti, l’attacco è di nuovo contro le donne. Ad esempio se Mentana – piuttosto che un altro collega molto seguito, scrive di una Ministra, l’attacco sarà alla Ministra di cui lui parla.

Per quello che riguarda poi il giornalista in particolare, se abbiamo visto che l’odio contro le donne nei social raggiunge il 47/48% della massa di commenti negativi, per le giornaliste raggiunge il 60%, quindi è veramente attaccata la professione.

D. mi sembra che ci sia un’altra grande differenza tra le giornaliste e i giornalisti. Mentre i giornalisti vengono attaccati nel merito, per ciò che dicono o scrivono, le giornaliste vengono attaccate in quanto persone.

R. Esattamente, la denigrazione del loro lavoro non dipende da ciò che dicono o scrivono. I commenti non sono del tipo “hai fatto male il tuo lavoro”, “stai dicendo stupidaggini”, ma “hai un neo, sei grassa, Sei brutta, sei vecchia”. L’attacco è direttamente alla donna.

Purtroppo oltre al neo, sei grassa, Sei brutta, sei vecchia ci sono poi gli attacchi veri e propri, le aggressioni verbali che sono di carattere sessuale e sono molto spesso di violenza tale che onestamente io mi vergogno, e non lo faccio mai, a ripetere quello che leggiamo in realtà quello che parzialmente abbiamo pubblicato riproducendo solo parzialmente alcune schermate pubbliche di quello che avviene su Facebook o su Twitter. Non siamo state in grado di leggere questi messaggi neppure quando un faldone di questi messaggi aggressivi è stato consegnato al Viminale, dove c’è in piedi un comitato che per l’appunto si preoccupa degli attacchi e delle minacce ai giornalisti. Anche dai dati che arrivano al Viminale risulta per l’appunto che la grandissima maggioranza di questi attacchi colpisce le donne.

D. Mentre parlavi mi è venuta in mente una domanda. Quando sui Social compaiono gli insulti, qual è la reazione degli uomini? Solidarietà o rincaro della dose?

R. Allora dovremmo parlare del tipo di attacco. Io ho detto che sono donne e uomini ora onestamente sono di più gli uomini ad attaccare le colleghe. Ciò che ci preoccupa però è che ci siano anche tante donne. Da questa analisi che abbiamo fatto sugli attacchi che arrivano sui social sono diciamo così di tipo diverso: una parte degli insulti e degli attacchi arriva dalla famosa “casalinga di Voghera” – che anni fa era presa da esempio come la telespettatrice tipo e ora la uso come esempio del leone da tastiera tipo –  ovvero da singoli, chiusi nella loro cameretta che leggono una cosa che non gli piace e cominciano, anziché a rispondere, a insultare oppure che vedono che tutti stanno insultando qualcuno e si uniscono anche loro al coro. Questi sono quelli che secondo me possono essere raggiunti, con i quali si può parlare. Poi ci sono, ed è davvero un problema molto serio e non solo italiano, i gruppi organizzati, anzi gruppi così organizzati che la maggior parte dei profili che vengono utilizzati per attaccare, per spargere odio sono assolutamente fasulli; dietro non c’è nessun essere umano, dietro c’è un computer, c’è una moltiplicazione di messaggi che è quasi impossibile contrastare. arriva una valanga di messaggi, quasi in contemporanea, zeppa di odio, di minacce, di parolacce, di attacchi sessisti.

Sono due meccanismi diversi.

C’è poi un altro meccanismo ancora che è quello di chi viene aizzato, ti faccio un esempio pratico. La collega che intervista l’allora Ministro degli Interni Salvini facendo una domanda vera alla quale Salvini reagisce male con un post tipo “ma cosa dice questa qui”. Questo post, che non è offensivo Ma che viene da un capo politico, scatena, aizza una valanga di messaggi di odio. è successo recentemente anche con la direttrice di Radio Rai Simona Sala.

Sono cose diverse che si affrontano in modo diverso: quando è il singolo odiatore, secondo me, è sufficiente la moderazione, che non vuol dire essere moderati, ma significa rispondere; ti dice “sei una capra” e tu dici “Scusa ma perché sono una capra, tu pensi che il mio articolo sia inesatto”; immediatamente si smonta questo aizzamento si smonta rapidamente, testimoniano molte delle colleghe che abbiamo intervistato. Quindi instaurando un dialogo, gli autori dei post si scusano, scrivendo frasi del tipo “scusa, mi sono lasciato prendere la mano”, e il tutto finisce lì.

Un altro modo per affrontare questo problema è quello che stiamo facendo qui ora: raccontare, parlarne; parlarne e dire che scrivere parolacce su internet non è innocente, anzi, nel caso dell’informazione, significa intralciarla; parlarne nelle università, fare formazione.

Imparare a utilizzare lo strumento digitale, imparare a usare i social, è un passaggio culturale che aiuta.

E’ invece tutto un altro discorso quando si parla di gruppi organizzati o addirittura di profili fasulli: per quello non c’è che un intervento legislativo che ci può difendere. Tutto ciò è molto delicato perché gli interventi legislativi devono essere molto oculati perché sul piatto della Bilancia c’è sempre anche la libertà di informazione. La legge che c’è in Germania che blocca tutto il linguaggio d’odio è stata ritenuta per esempio eccessiva perché di fatto ha dei rischi anche di limitare la libertà d’espressione. E’ un terreno delicatissimo, terreno delicatissimo che va indagato, ragionato e percorso.

D. I colleghi e le colleghe come reagiscono agli attacchi sui social? Mostrano solidarietà?

R. Allora alcune colleghe, risulta anche dalle interviste che abbiamo fatto, hanno avuto davvero paura un certo punto sono uscite dai Social anche rimettendoci, parlo per esempio di libere professioniste che attraverso i social potevano divulgare il loro lavoro.

Che cosa è successo? Si sono creati dei gruppi di sostegno, noi li consideriamo delle scorte mediatiche, così le chiamiamo, ovverosia scortare l’informazione. e colleghe e colleghi uomini che aiutano chi è minacciato nella moderazione dei profili. Su questo donne e uomini si prestano davvero allo stesso modo. Io ho partecipato a numerose riunioni per esempio di  Amnesty, che già da diverso tempo  ragionava  sull’opportunità di creare gruppi di volontari che intervenissero sui social per cambiare la narrazione…  di questo si tratta, tu attacchi Io invece ti parlo senza usare parolacce, quindi smonto la tua ira e il tuo odio.

In questi gruppi di lavoro io devo dire che donne e uomini soprattutto giovani sono sempre stati vari. La solidarietà che noi come GiULia  abbiamo dato alle nostre colleghe ha sempre avuto poi una solidarietà da parte del sindacato dei giornalisti, che non era solo una solidarietà femminile.

D. Questo è sicuramente positivo. Ti è mai capitato di essere oggetto di attacchi del genere?

R. Io personalmente Grazie al cielo no ma con il nostro lavoro si, con GiULia  giornaliste di più e diversi. In particolare quando c’era molto forte in questo Paese la discussione su una cosa che non esiste, cioè la PAS  la sindrome da alienazione parentale che era venuta di moda, ma che è una cosa che non c’è, ovvero sia la possibilità che le madri separate creassero ostacoli nel rapporto tra i figli e padre, il nostro sito GiULia  era stato violentemente preso di mira. Noi scrivevamo di queste cose su come l’informazione doveva comportarsi, perché noi sempre di informazione parliamo, e pure violentemente era stato preso di mira. Più recentemente mi sono resa conto che eravamo finite nella trappola di un algoritmo  quando, su Facebook in questo caso, avevamo parlato, ma di nuovo di come si stava comportando l’informazione, nel caso di direttore d’orchestra direttrice d’orchestra, ti ricorderai il caso a Sanremo, ebbene improvvisamente sono comparsi tutta una serie di commentatori che non avevano mai partecipato a nessuna discussione sulla nostra pagina per attaccarci perché  dicevamo che la grammatica è una sola e che sicuramente le giornaliste e giornalisti devono utilizzare la grammatica  per rispetto verso le lettrici e i lettori, prima che dare retta a come uno vuol farsi chiamare.  Ebbene sono arrivati per l’appunto persone che non avevano mai frequentato la nostra pagina Facebook quindi siamo finite in un algoritmo.

Vignetta dell'illustratrice @libriecetriolini che spiega lo zoombombing

Più violento è stato invece lo scorso novembre quando c’è stata una riunione organizzata della commissione pari opportunità della Federazione della stampa; noi di GiULia  avevamo ospiti e parlamentari, c’era la senatrice Valente c’era l’onorevole Boldrini, siamo state attaccate da quello che si chiama zoombombing. Bisogna stare attenti a non confonderlo con le parolacce, lo zoombombig non è una cosa di un gruppo di ragazzi goliardi, è una cosa di estrema violenza. E’ successo che mentre noi eravamo in una riunione ovviamente via computer, un webinar – perché altro in questo periodo non si può fare – c’è stata una incursione da parte di un gruppo organizzato, addirittura mascherato, con slogan fascisti con un fortissimo linguaggio sessista, che ha incominciato a insultarci, che ha cominciato ad  utilizzare un linguaggio molto violento, costringendoci a sospendere. Parlavamo del lavoro di Smart Working, di come questo aveva colpito anche il mondo femminile. Che cosa succede in questi casi? C’è evidentemente una limitazione della possibilità democratica di riunione – riunirsi è uno dei valori della democrazia –  insomma discutere, poter avere incontri non si può di persona, grazie al cielo ci sono questi modi attraverso il computer –  intervenire bloccando e come entrare in una riunione fisica buttando per aria la scrivania e quindi davvero è una questione di grande violenza. Purtroppo le zoombombing si riproducono  in tutti i contesti, ho visto addirittura incontri di arte o di archeologia, lezioni universitarie  interrotte da queste incursioni. Noi ne parliamo nel libro perché insieme alla rete nazionale per il contrasto ai fenomeni e ai linguaggi d’odio abbiamo anche messo a punto un decalogo abbastanza terra terra, banale, dove si danno indicazioni tra cui quella di svolgere riunioni chiuse, rese pubbliche attraverso Facebook o le registrazioni…  ma nella sala virtuale della discussione bisogna stare molto attenti a evitare che entrino gli odiatori.

D. Nel libro, oltre a raccogliere le testimonianze di alcune giornaliste, avete dato le definizioni di alcune parole o locuzioni che vengono utilizzate dai mass media, ma delle quali non sempre si conosce il reale significato. Ci faresti qualche esempio e ci spiegheresti semplicemente e brevemente il loro significato?

R.  Come senti, io tendo a parlare in italiano e a utilizzare poco i termini inglesi anche se in realtà io non so per quale pruderie – e uso un altro termine straniero – nascondiamo tutti termini del linguaggio d’odio dietro la maschera dell’inglese.

L’hate speech è il linguaggio d’odio, il linguaggio dell’intolleranza; forse chiamarlo cosi in lingua inglese serve per sottolineare il fatto che non si tratta di un problema solo italiano. Noi raccontiamo come se ne preoccupi l’Unesco che addirittura ora ha in corso una iniziativa denominata #JournalistsToo, nel senso che proprio si dedica ad analizzare cosa succede nel mondo dell’informazione alle giornaliste in questi casi.

C’è lo zoombombing, di cui abbiamo parlato prima,  che in italiano potremmo tradurre con il termine “incursione”, che è quello che utilizzeremmo in caso di riunioni in presenza.

E poi… e poi sono davvero infiniti. Devo dire che avevamo pensato di fare un vocabolarietto, poi abbiamo lasciato perdere.

C’è il revenge porn,  quella cosa odiosissima, terribile, della diffusione delle immagini hard, o non necessariamente particolarmente hard, tra un telefonino e l’altro; foto in pose più o meno osè che ci si scambia con persone con le quali si ha una relazione e, nel momento in cui tale relazione finisce, lui – perché non siamo a conoscenza di nessun caso in cui sia stata lei a farlo – diffonde queste immagini di intimità per mettere alla berlina alla sua ex compagna. Il revenge porn – anche la normativa utilizza il termine inglese – ha portato a suicidi, è una questione delicatissima perché la vergogna a volte diventa impossibile da  affrontare. Ci sono state bambine, perché non posso dire diversamente di chi ha 14-15 anni, che non ha resistito alla vergogna di avere le proprie foto che passano da un telefono all’altro. Recentemente a Torino una giovane maestra ha avuto la forza di far saltare il piatto, di ribaltare la situazione. La giovane maestra la quale aveva perso di fatto il posto di lavoro, perché la direttrice, venuta in possesso di queste immagini che l’ex compagno di questa maestra aveva diffuso, aveva fatto in modo che lei venisse cacciata dalla scuola. Bene La maestra ha rivoltato il tavolo e la gogna mediatica alla quale era stata sottoposta è costata invece l’accusa  nei confronti di questa direttrice didattica.

Quando attacchi una donna per com’è, per come è vestita, perché è grassa, perché è magra, perché ha gli occhiali o perché è vecchia, c’è un abuso, Secondo me, di termini inglesi nel raccontare queste cose c’è un abuso che un pochino mascherano quella che è, diciamola così, la maleducazione che diventa intolleranza, cattiveria.

D. Un’ultima domanda. Nella nostra chiacchierata di oggi hai parlato spesso di social. Credi che i social siano la causa di quest’aggressività nei confronti delle donne, o che tale atteggiamento ci sia sempre stato ed i social siano solo un amplificatore?

R. No i social non sono la causa. La causa è una cultura.

I social hanno dei vantaggi, bisogna stare attenti a non demonizzare lo strumento. I social ci hanno consentito in questo anno interminabile, che ormai è un anno e mezzo, di essere vicini anche da lontano. Ho partecipato ad una riunione condominiale di una città in cui non ero… cosa una volta del tutto impensabile. Ci hanno fatto scoprire un altro modo di fare comunità.

Sicuramente poi c’è un uso dei social che diventa malato. I social permettono di entrare in contatto con gente che non conosci, permettono anche di entrare in contatto con gruppi ai quali non saresti naturalmente affine ma da cui rischi di farti trascinare.

Da un lato c’è la possibilità di utilizzare i social per saperne di più, per  informarsi di più, per ragionare di più, condividere di più; dall’altra arriva addosso anche la parte negativa. Sicuramente in lockdown non ha aiutato. La ricerca non si è fermata con il libro (il libro è uscito hai detto giustamente all’inizio di febbraio l’ebook, sta andando invece in libreria in questi giorni in cartaceo),  noi fino all’ultimo momento abbiamo cercato di aggiornare la nostra  inchiesta. Le cose sono andate avanti, Ora per esempio è uscita la ricerca, che ha fatto proprio Amnesty sul linguaggio d’odio, da cui si vede come il numero di interazioni sui social in questo anno sia andato alle stelle e quindi, all’interno di questa moltiplicazione di messaggi, percentualmente il linguaggio d’odio diminuisce, diventa – non ti dico di nicchia perché ancora troppo – però più contenuto. Ci sgomenta scoprire che, all’interno di questo contenimento, il linguaggio d’odio sia comunque sempre altissimo quello contro le donne giornaliste e contro le donne che hanno una professione. Di fatto però la popolazione odiatrice resta più individuata.

Ecco, mettiamola così, i social sono stati senz’altro un modo per dare coraggio a quelli che non avrebbero mai detto parolacce in pubblico e che invece le hanno scoperte come sfogatoio. Sono coloro quelli di cui dicevo prima, con i quali secondo me basta poi fare due chiacchiere, parlarsi, togliere la distanza dello schermo che ti rende anonimo e, avendo uno scambio, di portarli alla realtà. Siamo persone dietro questi schermi.

D.  Assolutamente sì, Silvia, io ti ringrazio ed invito tutti a leggere il libro “#STAIZITTA GIORNALISTA! dall’hate speech allo zoombombing quando le parole imbavagliano”, che è un’inchiesta illuminante ed istruttiva. Grazie ancora per essere stata con noi.

R. Grazie a te perché guarda, come ci dicevamo, questo libro non è un punto di arrivo, è uno strumento per ragionare, discutere di questi temi e quindi la tua ospitalità ci fa tantissimo piacere. Grazie a te.

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