di Flavio Lucchini
Ancora oggi, troppe persone vengono discriminate a causa della loro disabilità e quando queste vivono un’identità LGBTI+ si trovano ad affrontare un ulteriore stigma, si parla quindi di discriminazione multipla.
Alle dinamiche legate all’abilismo si possono sommare problematiche legate all’orientamento sessuale e all’identità di genere che derivano da una cultura ancora intrisa di pregiudizi, di omolesbobitransafobia e sessuofobia, verso ogni identità non eteronormata.
Nella Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, ratificata in Italia con la Legge 18 del 3 marzo 2009, è esplicitata l’esistenza di una possibile condizione di discriminazione multipla, cui sono soggette le persone che assommano alla disabilità ulteriori fattori di rischio. Nel Preambolo della Convenzione ONU, alla lettera p), si manifesta infatti preoccupazione per le «difficili condizioni affrontate dalle persone con disabilità, che sono soggette a molteplici o più gravi forme di discriminazione sulla base della razza, colore della pelle, sesso, lingua, religione, opinioni politiche o di altra natura, origine nazionale, etnica, indigena o sociale, patrimonio, nascita, età o altra condizione». Tale rischio di “multidiscriminazione” risulta spesso accompagnato da una sostanziale inconsapevolezza. Se, infatti, la percezione della discriminazione come persona con disabilità è ormai, pur in modo parziale, diffusa a livello personale e sociale, al contrario si stenta ancora a riconoscere le situazioni di discriminazioni multiple.
Una situazione particolarmente critica nonché sottaciuta è vissuta dalle persone con disabilità LGBT+, poiché le discriminazioni subite assumono forme particolarmente complesse e pervasive arrivando a condizionare tutte le sfere di vita, non ultima il libero esercizio della propria affettività e sessualità. La questione al di fuori dell’Italia è particolarmente sentita e oggetto di interesse anche accademico, arrivando a sviluppare uno specifico settore di studi denominato Crip Theory, dal titolo di un influente volume di Robert McRuer del 2006 nel quale si formalizza l’intersezione tra disability studies e teoria queer. Di tale dibattito in Italia si sente solo una lontana eco: la ricerca accademica si occupa della questione in modo episodico, mentre le organizzazioni di advocacy non sempre riescono a ricondurre le iniziative all’interno di un quadro esplicitamente intersezionale e attento alle discriminazioni multiple.
La Legge Zan, alla quale sono favorevole, potrebbe segnare un passo in avanti per la nostra comunità.
È importante che protegga persone Lgbt, disabili e donne.
Molti sono convinti che con l’approvazione della legge, risulti impossibile esprimere parere contrari alla condizione omosessuale.
Non è così; la legge non si prefigge di limitare la libertà di espressione, ma semplicemente quello di impedire che vengano discriminate ed offese le diverse condizioni della natura umana, nonché punire coloro che tramite manifestazioni d’odio violente e criminose, esprimono tali avversioni. I numerosi fatti di cronaca ne sono la testimonianza.
Questa è una legge che prevede molte azioni positive e anche il recupero sociale ed umano di chi ha indirizzato questo odio verso le persone LGBTQ+, così come previsto dall’apposito articolo di legge, che introduce la possibilità per l’aggressore di svolgere attività non retribuite a favore della collettività in caso di sospensione condizionale della pena: il condannato, in tal caso, ad esempio, potrà svolgere attività presso associazioni LGBTQ+ ed entrare in contatto con quella realtà che ha sempre temuto, al punto di tentare di annientarla ed umiliarla.
Mediante tale atteggiamento, la legge si prefigge di prevenire le manifestazioni criminose di coloro che covano un profondo odio nei riguardi delle varie diversità.
Sostengo la validità di questa legge, proprio per questi suoi intenti positivi, che gettano le basi per l’attivazione di interventi che si prefiggono di innescare e provocare una serie di profonde riflessioni che potrebbero portare al cambiamento radicale nella modalità di pensiero ed azione negli individui che sono portati a trasformare il proprio odio in azioni criminose e violente.
L’istituzione di un nuovo e specifico reato ed il relativo aumento della pena, anche grazie alla specifica aggravante, dovrebbe costituire un ulteriore e concreto presupposto che consenta agli stessi individui violenti di comprendere l’errata natura del loro comportamento e lo rigettino.
La proposta Zan è positiva, perché introduce nuove ed efficaci potenzialità per il sistema sociale e giudiziario che potrebbero rivelarsi una soluzione vincente alla lotta dell’omofobia ed in senso più esteso, contro ogni forma di discriminazione; pur consapevoli che l’attuale legislazione già preveda la tutela delle varie diversità, ma in questa confusione creata dalle norme penali italiane è un bene che si rimarchi e puntualizzi il relativo valore. Una nuova ed apposita legge farà meglio comprendere a tutti quanti che siamo esseri umani meritevoli di ogni rispetto e titolari di ogni diritto. Qualcuno ancora non lo ha capito.
La parte che mi piace di più della legge, sempre che la destra e la parte più vicina agli integralisti cattolici non la facciano modificare, è che prevede per il 17 maggio l’introduzione di una giornata nazionale contro l’omofobia, da svolgere con le scuole, la sensibilizzazione verso queste discriminazioni è importante. La scuola è il punto di partenza per evitare in seguito discriminazioni e discorsi d’odio.”
Intanto molti disabili LGBTQ+, hanno percorsi di vita soddisfacente, soprattutto se sono visibili o hanno un compagno. Ci sono persone che vivono bene, anche con difficoltà che sembrerebbero estreme: dalla sclerosi multipla a gravi handicap motori. Alcuni si sono appoggiati a percorsi interiori di psicoterapia o ad associazioni che li hanno accolti umanamente, senza pietismo, in un rapporto alla pari. L’handicap gay, fino a ieri tanto invisibile, è insomma uscito allo scoperto, esprimendo una lunga serie di difficoltà, ma anche e soprattutto richieste concrete alla comunità.
Molto più difficile l’integrazione per coloro che hanno disabilità invisibili: (protesi, non udenti, non vedenti, patologie congenite).
La prima difficoltà dei gay disabili è il doppio coming out, prima da omosessuali e dopo da disabili. Inoltre, sono da considerare decine di altre situazioni, ed è ancora un’incognita sull’handicap mentale, ma l’associazionismo di disabili è solo un palliativo: Sarebbe auspicabile far parte dell’associazionismo generico, senza necessariamente doversi incontrare solo tra di noi. Uscire allo scoperto significa stare tra tutti. Ma con i luoghi di aggregazione LGBTQ+ per lo più irraggiungibili o con barriere architettoniche, che si fa? E’ diffusa tra noi disabili LGVTQ+ la convinzione che siano pochi coloro che fanno coming-out per diverse ragioni, quindi gli omosessuali in generale non si pongono nemmeno il problema se esistiamo o no. E l’omosessuale italiano medio ha già problemi con la propria personale accettazione, figuriamoci se può pensare di relazionarsi con noi. Sarà triste ma è così. Nel frattempo, dobbiamo darci una priorità, confrontarci tra di noi, capire come relazionarci coi normodotati, aumentando quell’autostima che ci permetterà di uscire dall’invisibilità e solitudine. Lavoreremo successivamente sulla visibilità della disabilità nella comunità e nell’associazionismo generico rivolto all’handicap, che contempla l’opzione omosessualità.
La solitudine è qualcosa di più dell’essere soli. È uno stato mentale che si può vivere sia quando si è fisicamente da soli, sia in mezzo a una folla, e può aggravare determinate condizioni di salute, tra cui ansia, depressione, demenza, malattia di Alzheimer, pressione alta e cardiopatie. E può essere particolarmente preoccupante per i disabili LGBTQ+ che hanno oltre il doppio delle probabilità di vivere soli e percepire l’isolamento sociale rispetto agli altri della comunità. Con la pandemia, l’isolamento e la solitudine sono aumentati esponenzialmente. Alcune statistiche parlano del 70% di persone che per paura o per precauzione non hanno relazioni sociali da due anni.
Per questo si sono creati molti punti di aggregazione virtuale come il «Progetto Arcobaleno» nato ormai sette anni fa, senza la presunzione di cambiare la società, nemmeno quello di risolvere i conflitti interiori.
Nasce per supportare, condividere, ascoltare e far sì che le persone cieche LGBTQ+ possano essere più sicure di se stesse, accettando ciò che sono, per poter vivere la propria vita serenamente, senza colpe, vergogne ed emarginazioni.
Sono convinto che omosessuali non si nasce, e nemmeno si diventa. Omosessuali si è!
Riconoscere e accettare questa identità risulta spesso difficile, in famiglia e in una società a cui bisogna dimostrare che l’omosessualità non è una malattia da cui si può guarire, o la scelta dovuta al capriccio di una moda.
L’ignoranza e i pregiudizi duri a morire fanno sì che essere omosessuali con l’aggravante della disabilità sia ancora causa di emarginazione, disprezzo e fonte di sofferenza. Per questo nasciamo come gruppo di Auto-Mutuo-Aiuto, ma senza professionisti, senza titoli accademici, siamo semplicemente persone cieche-LGBTQ+ che confrontano le proprie esperienze senza pregiudizi, con semplicità, autoironia e leggerezza quando e quanto serve.
Capita a volte di dover affrontare casi difficili come il caso di Ibrahim, un ragazzo cieco e omosessuale, rifiutato e segregato dalla famiglia per questa condizione. Come precedentemente scritto, non essendo professionisti abbiamo dovuto chiedere supporto ad altre associazioni con maggior esperienza in casi internazionali, con contatti in paesi stranieri.
Fortunatamente dopo un lungo lavoro di squadra e un buon coordinamento nel paese in cui si trova, siamo riusciti a portare il ragazzo in un luogo protetto in attesa che i documenti per farlo tornare in Italia siano pronti. Ci auguriamo di restituirgli quella libertà e dignità che la famiglia gli ha tolto.
Il Progetto Arcobaleno è anche questo.