Le parole sono pietre

di Serena Bersani (*)

Immagine di un cartello bianco dove sotto una grande scritta rossa NO, FEMMINICIDIO sono scritte numerose parole di diverso formato come: DISPERATO, DEPRESSO, RAPTUS, TROPPO AMORE, GELOSIA, FOLLE GESTO, etc.

Possono ferire, aggiungere dolore a una violenza fisica, pesare sull’anima più dei pugni e dei calci sul corpo. Per chi usa le parole per professione, la loro scelta non è indifferente. Comporta una responsabilità nei confronti di chi si parla, ma anche di chi legge. I giornalisti sono coloro che, per mestiere, raccontano il mondo cercando (quasi sempre) di farlo con il massimo dell’onestà intellettuale. Sulle nostre spalle, nelle nostre dita che battono sulle tastiere c’è la responsabilità di non mistificare le vicende raccontate e, anche, di creare a poco a poco modelli culturali diversi. La misoginia, la discriminazione delle donne, il perpetuarsi di modelli femminili stereotipati passa anche attraverso il lessico.

Le parole che usiamo non sono neutre ma connotate di numerose sfumature di significato. La parola uomo, ad esempio, significa anche, per estensione, la specie umana. In questo caso la parola uomo comprende anche la donna. La cultura androcentrica ha fatto sì che non accadesse il contrario, ovvero che nella parola donna potesse essere compreso anche l’uomo.

I mezzi d’informazione per un verso si conformano alla cultura dominante e al suo linguaggio, per altro verso cercano di cambiarla introducendo novità linguistiche. La parola «ministra», per esempio, suona ancora un po’ stonata alle nostre orecchie perché non sono poi tanti anni che abbiamo ministre in Italia. E tuttavia ministra è la forma corretta. Nello stesso modo si dirà: la giudice, la magistrata, la chirurga, la consigliera, la deputata, la parlamentare, l’ingegnera, l’avvocata, la carabiniera, la finanziera, la notaia, la prefetta, l’ambasciatrice, l’amministratrice delegata, la presidente. E’ possibile fare un uso non sessista della lingua e i mezzi d’informazione devono farsi promotori di questi piccoli/grandi adattamenti culturali. La rete Gi.U.Li.A (Giornaliste unite libere autonome, http://giulia.globalist.it) ne ha fatto una delle sue battaglie. Le parole contano, come diceva Nanni Moretti, sono lo specchio del nostro vivere sociale.

Prendiamo, per esempio, il dramma del femminicidio, una pandemia per la quale non si è ancora trovato il vaccino. Troppo spesso si leggono ancora titoli come «amore mortale», «delitto passionale», «uccisa per troppo amore». Titoli che non colgono l’ossimoro contenuto in frasi come queste, perché là dove c’è amore non può esserci la soppressione dell’amata, il delitto, lo sfregio. Troppo spesso ancora si legge di uomini che hanno ucciso le proprie donne in un «raptus di follia», senza considerare che il raptus in psichiatria di fatto non esiste. Parlare di «raptus di follia» è già fornire un’attenuante al colpevole, come se per un attimo avesse perso la capacità di intendere e di volere, quando invece le perizie psichiatriche attestano quasi sempre la capacità di intendere e di volere degli assassini. Purtroppo spesso la narrazione giornalistica finisce col mettere in evidenza soprattutto gli aspetti privati e giudicati riprovevoli della vittima, mentre si tende a giustificare il carnefice, a sposare il suo punto di vista anziché quello di chi ha patito la violenza. Insomma, siamo ancora al come era vestita, al se l’è cercata.

Quindi,  è evidente che la cultura dell’uguaglianza e il raggiungimento di un’effettiva parità di genere passano anche attraverso un uso non sessista della nostra lingua (e di tutti gli elementi che concorrono a fare informazione), meno conservatore e più aperto all’evolversi della società.

Cominciamo dall’abc. Il femminile esiste: usiamolo.

(*) Giornalista professionista, consigliera dell’Ordine dei giornalisti dell’Emilia-Romagna.
Componente della rete Gi.U.Li.A Giornaliste.

1 commento su “Le parole sono pietre”

  1. Sono una pediatra che si occupa di stigma sul peso e sul corpo
    Da anni cerco un contatto con i giornalisti che spesso ignorano il peso delle parole o le usano per fare ascolto facendo crescere lo stigma. In ogni campo ci sono parole che fanno male. Per esempio la peditra ok, ma la medica? eppure sappiamo che numericamente oggi il medico è DONNA.
    Ho appena letto un articolo
    Fisch C, Whelan J, Evans S, Whitaker LA, Gajjar S, Ali L, Fugate C, Puhl R, Hartwell M. Use of person-centred language among scientific research focused on childhood obesity. Pediatr Obes. 2021 Dec 20:e12879.
    che ha fatto una revisione sul linguaggio usato nelle riviste di Medicina sull’obesità e scopre che solo il 20% degli articoli rispettano il “First person Language” (per esempio non “bambino obeso” ma “bambino con obesità”) oggi ritenuto obbligatorio per contrastare lo stigma sul peso. Si chiede alle riviste di inserirlo nelle regole per preparare gli articoli, ai revisori di farlo rispettare ed agli autori di imparare ad usarlo nella routine quotidiana. Vorrei diffondere il messaggio
    Grazie

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